Racconti Brevi – ALICE

Alice era una bambina bellissima. La perfetta miniatura di sua madre.
Una cascata di mossi capelli castano scuro, con limpidi riflessi del colore del grano, così voluminosi da formare, a seconda di come sua madre decideva di acconciarla, una naturale onda ribelle che le accarezzava il viso prima da un lato, poi dall’altro.
Come la cioccolata quando avvolge una fragola, protettiva ed invitante.
C’era davvero una strana connessione tra le due. Ad Alice infatti piaceva da matti riprodurne ogni gesto e movimento, soprattutto quando entrambe si preparavano in bagno prima di uscire. Io le osservavo da lontano, dal divano in salotto, attraverso quella lingua di spazio vuoto tra l’angolo della casa, dove partiva il corridoio che portava alle camere ed alla porta del bagno. Amavo quegli istanti sospesi, in cui mi sentivo pieno e fiero di essere stato in grado di ottenere tutto quello che stavo ammirando, faticando a credere che fosse davvero tutto mio. Che avessi potuto entrare in quel bagno dalle mattonelle rosa, le rane giocattolo, la radio in plastica in stile anni 60 e poterle stringere a me. Dire loro quanto le amassi, senza pensare nemmeno un istante, a chi sarei potuto essere in quell’esatto momento, in un mondo parallelo, se non fossero mai esistite.
Mi ricordo i giorni in cui Alice ancora non era arrivata con la sua candida esuberanza ed io e la madre fantasticavamo di viaggi ed avventure e romantiche passeggiate su crinali di mondi che ci eravamo promessi di esplorare. Eravamo ignari che Alice sarebbe arrivata così, all’improvviso. Come un fulmine a ciel sereno, di quelli che non ti spaventano, ma invece ti affascinano. Perché puoi ammirarli da lontano in tutto il loro splendore naturale. Alice era proprio come un fulmine. Uno schianto portentoso, che spezza una di quelle giornate dove non capita nulla di degno da dover ricordare. Per questo, meravigliosa.
Eccole li. Riesco a vederle ancora nitidamente, come se avessi in mano una di quelle foto che si riesce a scattare al momento giusto, senza essere visti e che catturano quella naturalezza della quotidianità che rende bella anche una comune colazione al mattino. Entrambe sedute vicino al lavabo in bagno, a maneggiare trucchi, creme, spazzole e profumi. A rendersi ancora più profumate ed attraenti, di quanto non lo fossero già naturalmente. Ovviamente Alice era troppo piccola e non le permettevamo di truccarsi davvero. Le lasciavamo usare tutto, a patto che restasse ben chiuso. A lei questo non interessava. Per lei, il semplice potersi sedere in braccio alla madre, facendo finta di agghindarsi in sua compagnia era già abbastanza. Alice era fatta così. Non chiedeva mai niente, mai un giocattolo nè una bambola. Non aveva mai pianto per un gelato, nè fatto i capricci per una caramella. Alice accoglieva serena ciò che le veniva donato. Noi, come tutte le coppie di giovani genitori alle prime armi, la coccolavamo e riempivamo ovviamente di regali, ma sembrava che le bastasse semplicemente il nostro amore. E questa era la cosa più straordinaria che potesse capitarci, perchè era lei ad insegnarci quanto fossero importanti le piccole cose. Anche questo dono era una caratteristica ricevuta dalla madre. La donna che mi aveva insegnato ad amare con la sua dolcezza, con la sua tenacia nel donarmi affetto, anche quando non lo meritavo, con la sua insaziabile voglia di prendersi cura di me, quasi a volersi sdebitare per quei pochi pallidi segnali d’amore che io faticavo a dispensare. Questo era il mio peggior difetto. Amavo quella donna più di me stesso, perchè mi aveva insegnato a saper guardare col cuore e non con l’esperienza dei propri fallimenti. Accompagnandomi, passo dopo passo, nel difficile percorso dell’aprire la propria anima a qualcuno. Ma qualcosa di sbagliato in me mi frenava sistematicamente dal ripetergli costantemente quanto fosse per me indispensabile. Quando me ne accorgevo, cercavo di recuperare inventandomi eclatanti scenografie costruite maldestramente con luoghi magici, una degna rasatura e tutta l’onestà che potessi offrire nel descriverle i miei sentimenti. Nonostante ce la mettessi tutta, restavo comunque un passo indietro rispetto a lei. Perchè aveva quella luce dentro impossibile da replicare. Ed in questi casi non puoi far altro che ritenerti un bastardo fortunato, lasciarti bagnare dai suoi raggi e continuare a correrle dietro di gusto.
Alice era sbocciata come una bellissima rosa nel nostro piccolo orto. Non l’avevamo cercata e non ci eravamo nemmeno chiesti quale potesse essere il momento giusto per rendere affollata la nostra tenda. Proprio per questo, quando invece lei arrivò, facendo capolino tra le nostre due vite, non ci fu esitazione. Ma solo immenso amore nel salutarla. Fu proprio quello il primo regalo che la piccolina ci donò: renderci consapevoli che il nostro amore speciale potesse creare ulteriore magia. Il vero panico, stranamente, arrivò con la scelta del nome. Ricordo che passammo intere settimane a cercarlo, perchè volevamo essere sicuri di non scegliere qualcosa di banale, ma nemmeno di troppo esotico. Studiammo interi libri sul significato dei nomi, sulle caratteristiche caratteriali ad essi legati, considerammo addirittura tutti i nomi dei personaggi storici che ci avevano sempre appassionato. Poi, come per tutte le cose che ci venivano bene, il caso oppure il destino, decise per noi. Era un pomeriggio durante il quale avevamo deliberatamente scelto di abbandonarci alla rilassatezza di un letto e qualcosa ci riportò a giocare con un nome in particolare, quel nome. Per qualche misterioso motivo, il modo stesso con cui lei iniziò a pronunciarlo, il movimento delle sue labbra nel scandirlo, il suono della sua voce immaginando di chiamare nostra figlia da una stanza all’altra, mi catapultò in un tenero universo fatto di sorrisi senza denti, canzoncine per farla addormentare, parole bisbigliate e amore silenzioso sul divano per non farla svegliare, letterine di natale e qualche tenero capriccio. Cancellando in me ogni dubbio, se non legato al mio essere realmente in grado di proteggerla nel presentarle il mondo. Ho sempre amato il modo in cui entrambi i nomi delle mie meraviglie suonassero insieme. Sembravano fatti apposta per essere evocati uno con l’altro ed io adoravo ogni istante in cui dovevo chiamarle, magari per uscire per una passeggiata o semplicemente perchè eravamo in ritardo per raggiungere chissà quale meta. Ho amato ogni singolo atomo di entrambe, ogni singolo attimo della mia esistenza insieme a loro. E so con certezza di essere stato destinato da sempre ad entrambe. Certe sensazioni, certe emozioni, possono manifestarsi soltanto una volta nell’esistenza di un individuo. Perchè uniche. Come lo erano loro due.
Ho giocato ogni giorno con Alice. Abbiamo creato quadri in pastello dalla bellezza sconvolgente, a tal punto che un giorno un tizio ci ha offerto addirittura dei fiori per accaparrarsene uno. Noi ovviamente abbiamo accettato, perchè Alice ha sempre amato i fiori. Spesso andavamo a fare dei picnic in un parco a circa un’ora di macchina dalla città. Sigurtà, era quello il suo nome. Un gigantesco giardino botanico, con prati immensi, distese di fiori di ogni genere, laghetti e anche un vero labirinto di fitte siepi alte. Io e sua madre ci andavamo spesso prima che Alice nascesse ed abbiamo continuato portandoci anche lei. Ridevamo di gusto quando la piccolina non riusciva a scandirlo bene. “Siguà…Sihutah…Siruà”. Piccola dolce Alice. Ogni volta era un festa: durante ogni visita, lei correva come impazzita tra i fiori, volendoci a tutti costi mostrare ogni loro singola variante, restava elettrizzata dallo scovare qualche carpa nuotare negli stagni oppure si intimoriva nel non riuscire a trovare l’uscita dal labirinto. Dove sistematicamente, in tre, ci perdevamo ogni volta per una buona mezz’ora.
Abbiamo costruito vere casette in legno per le bambole, così come un accampamento indiano nel bel mezzo del salotto di casa, realizzato spostando verso l’esterno della stanza il divano, le due poltrone in ecopelle ed il tavolino in cristallo, per poi truccarci a dovere come solo un vero Sioux sa fare prima di danzare per la pioggia. Una volta, durante una di queste danze tribali, sono inciampato cadendo rovinosamente sulla tenda fatta con una scopa ed un vecchio lenzuolo. Alice arrestò la sua danza solo per un attimo, per rimproverarmi di aver spaventato la pioggia con tutto quel baccano e poi continuare con la madre a saltellare in tondo, prendendomi in giro per non essere in grado di ballare. Con Alice ho anche imparato, da adulto, a non aver paura degli animali, paura che avevo sin da bambino. Adottammo un gattino, trovato durante una delle tante gite in montagna che ci concedevamo nel weekend. Stavamo passeggiando lungo i vicoli di questo borgo medioevale, quando questo cucciolo di micio iniziò a seguirci, probabilmente perchè affamato, oltre che curioso. Alice immediatamente lo accolse con innata naturalezza, mentre io già ero salito su montagne russe mentali fatte di malattie, graffi e chissà quale altra catastrofe immaginaria.
“Papà, vieni ad accarezzare Tigre!”
“Principessa, è un gatto randagio…stai attenta!”
“Papà, hai visto quanto è piccolo?! Devo io stare attenta a non fargli male!”
“Beh…però fai lo stesso attenzione, ok?!”
“Possiamo portarlo a casa? A casa gli darei la pappa ogni giorno, quando mangio anche io!”
Sua madre si piegò per accarezzarlo e quello fu il momento in cui Tigre divenne il nostro gatto. Entrambe mi insegnarono a capire i suoi segnali e le sue necessità e mentre io mi prendevo cura sia di Alice che del gatto, Alice si prendeva cura del gatto. E di me.
Quando le due modelle si sedevano davanti lo specchio nel bagno, Tigre faceva da guardiano tenendole compagnia appollaiato sul davanzale della finestra vicino la doccia. Alice, si fingeva truccata alla perfezione con un rossetto tenuto ben chiuso nella sua confezione dalla madre e rivolgendosi al felino, intavolava immaginarie discussioni fatte di complimenti, pareri e qualche ritocchino consigliati dal gatto stesso. Durante questi scambi surreali, dopo ogni botta e risposta, la piccolina lanciava uno sguardo verso sua madre, per ottenere consenso o semplice appoggio. Accorgendosi della cosa, anche la madre iniziava a conversare con il gatto, raggiungendo sempre un accordo sul come Alice dovesse procedere col trucco. A volte, quando gustarmi questi siparietti non mi bastava, entravo anche io in bagno, il più delle volte per stuzzicarle con pareri controcorrente e per avvalorare le mie tesi strampalate sul come una donna dovrebbe truccarsi, prendevo qualche matita ed mostravo le mie teorie su me stesso, truccandomi sul serio, nello stupore dei presenti. Gatto compreso. Sentirle ridere di gusto mi riempiva l’anima e mi sentivo in grado di poter restituire anche solo pochi attimi di quella stessa felicità e divertimento che loro mi concedevano ogni giorno. Prima di uscire, era Alice stessa a struccarmi con le sue piccole mani sporche di crema e residui di matita e pigmenti che prima rendevano ridicolo il mio viso. Io mi truccavo proprio per permetterle di sporcarsi seriamente ed ogni volta ero contento di essermi reso temporaneamente un clown anche agli occhi della madre, adorando il modo in cui lei stessa cavalcasse questo nostro giocare.
Ora Alice è grande, ma ogni tanto con sua madre, ci concediamo ancora qualche gita, così come le nostre passeggiate al parco Sigurtà. Negli anni abbiamo organizzato anche qualche viaggio più lungo e ogni tanto facciamo ancora finta di truccarci tutti insieme, come se fossimo ancora tutti in quel bagno pieni di quel nostro amore unico. Amo le mie due meraviglie come fosse il primo giorno. Certe cose sono talmente speciali, dall’essere immutabili ed immortali.
Questa è una storia a lieto fine.
Perchè frutto di pura immaginazione, per un immaginario futuro. Uno di quei tanti possibili scenari, dove possiamo essere protagonisti diversi a seconda di quali scelte prendiamo nel presente. Oggi, in questo mondo parallelo, Alice e sua madre non sono mai esistite.
Ci sono solo io. Su un barcone incagliato nel bel mezzo di una Milano deserta e ricoperta di neve, che mi riscaldo l’anima suonando la chitarra per un paio di occhi scuri ed una cascata di mossi capelli castano scuro incrociati per caso. Pronto e senza esitazioni ad accogliere ciò che ancora deve arrivare.
Fine.
Antonio Capra
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